Nel recente passato un titolo di questo genere poteva essere proprio del dibattito sul senso dei movimenti nella chiesa. Così il n. 3 di Concilium del 2003 titolava Sette Cattoliche? affrontando le tematiche relative a molti movimenti presenti nella chiesa.
Non è questo il modo con cui voglio affrontare l’argomento. Riconosco ai movimenti il ruolo di stimolo che hanno avuto in questi anni, riconosco la necessità che nella storia della chiesa sorgano sempre gruppi espressivi di nuove forme di spiritualità, ma riconosco anche la necessità che tutti, nuovi movimenti e vecchi ordini o altre istituzioni religiose siano attenti a esprimere in modo autentico la fedeltà al Vangelo e alla Chiesa.
Ora una delle espressioni tipiche del Vangelo e della Chiesa è di essere sempre in missione, ovunque e comunque. Pertanto la missione diventa uno dei criteri per valutare la validità del messaggio evangelico proposto e la fedeltà alla chiesa.
La prima questione nella chiesa, affrontata nel Concilio di Gerusalemme, è stata proprio una questione di missione: il Vangelo era per gli Ebrei e per i convertiti dall’ebraismo o anche per tutti senza necessità di dover convertirsi all’ebraismo? la risposta, sostenuta da san Paolo fu che non c’è bisogno di convertirsi all’ebraismo per diventare cristiani e che tutti gli uomini possono diventare cristiani.
Questa apertura originaria ha molti significati. Dice anzitutto che la fede cristiana non è legata a una appartenenza religiosa previa, non è legata a una lingua, non a un popolo o a una razza particolare, non a una filosofia o ad altre forme della storia umana.
La fede cristiana diventa così espressione della massima e più autentica libertà da ogni forma di condizionamento.
Si tratta di un principio che va costantemente richiamato nella chiesa per evitare chiusure e soprattutto per evitare che la chiesa diventi una chiesuola, come diceva spesso Turoldo parlando di coloro che presumono di racchiudere la chiesa nelle proprie opinioni personali.
Una delle frasi evangeliche che dovrebbero essere meditate costantemente a questo proposito è quella riportata in Lc 8, 19-21: In quel tempo, andarono da Gesù la madre e i suoi fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. Gli fecero sapere: «Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e desiderano vederti». Ma egli rispose loro: «Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica». Questo testo esprime chiaramente la nuova forma di appartenenza: è cristiano chiunque ascolta la Parola di Dio e la vive. Sono superate tutte le altre forme di appartenenza, anche quelle più forti, come quelle del sangue, quelle sociali, quelle politiche e quelle del pensiero. Nessuna appartenenza e identità storica o sociale diventa necessaria e determinante per il cristiano. Anzi, quando si rivendicano appartenenze di questo genere significa che il cristianesimo viene ridotto a schemi piccini.
Così il richiamo a terre o lingue particolari rischia sempre di essere una strumentalizzazione religiosa piuttosto che espressione di fede radicata in un luogo particolare.
La mia impressione è che molti riferimenti locali, tipici e necessari per alcuni versi in tempo di globalizzazione, presenti anche in questo nostro Friuli, non siano di apertura, ma di chiusura. Così ad es., il riferimento al patriarcato di Aquileia è spesso presentato erroneamente come una riduzione all’attuale Friuli, che ha ben poco a vedere con il patriarcato antico, se non come piccola porzione di quello che era in antico quella grande chiesa.
Così vale anche per la lingua friulana, che non può essere richiamata per farne una lingua del patriarcato, in quanto certamente non la conosceva.
Quando poi la croce del patriarcato di Aquileia viene usata come un vessillo per le feste o le sarabande enogastronomiche del Friuli-doc, come si è visto recentemente, credo che si tratti di un uso altamente provocatorio e offensivo per la memoria del patriarcato stesso, e della croce in particolare. Certamente un uso offensivo per i credenti seri.
Ma Udine non è nuova a queste cose: basti vedere la lapide posta sotto il busto di fra Paolo Sarpi, all’inizio dell’omonima via, per rendersi conto di come e quanto sia offensivo usare come bandiera antiromana, antiecclesiale e anticlericale una figura che invece è stata di grandissimo livello spirituale, scientifico, letterario. Quando un non credente usa una bandiera dei credenti la usa certamente in modo improprio e strumentalizzante, e allora per favore non si appropri di simboli che non gli appartengono e li lasci ai legittimi proprietari e a chi li sa usare correttamente.
La lapide posta sotto il busto di fra Paolo Sarpi è in effetti oltraggiosa per la storia, per la persona del frate Servo di Maria, riconosciuto da sempre come uomo integro, fedele alla chiesa, di grande spirito oltre che di grande scienza; ma è anche offensiva per tutto l’Ordine dei Servi di Maria che del Sarpi conserva con sano orgoglio ogni memoria, e lo considera giustamente una delle più luminose e sante figure dell’Ordine.
Se i laici e gli anticlericali usano i simboli e le persone religiose come proprie bandiere, significa che non hanno mezzi e bandiere proprie, e comunque quelle che hanno cercato di creare in proprio in questi ultimi secoli sono state tutte foriere di grandi tragedie.
Ma alle volte anche persone che si dicono cristiane e religiose usano bandiere che non sono proprie, e in questo non sono dissimili dagli atei e dagli anticlericali. Che i cristiani usino bene i propri simboli è di fondamentale importanza.
Chi usa bene la bandiera della fede lo si riconosce non da come sa sventolare il proprio vessillo, bensì dalle opere compiute nella sua missione, e lo si riconosce dal concetto di visione che ha della chiesa. E per un cristiano avere una giusta visione della chiesa significa vivere bene tutto. In questo senso extra ecclesiam nulla salus.
p. Cristiano
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